Particolarità delle
Pajare
La
costruzione trulliforme è la dimora più adatta per le nostre campagne,
in quanto, considerando che le estati sono molto calde e gli inverni
relativamente rigidi, grazie allo spessore delle “muraje”, tra il
pietrame più piccolo utilizzato per colmare l’intercapedine si forma
una camera d’aria che funge da ottimo coibente della temperatura
esterna.
Pertanto
la paiara all’interno presenta temperature miti in inverno e fresche
durante la stagione estiva. Inoltre la sua struttura è anche resistente
ai movimenti tellurici in quanto la passività della sua compagine muraria
assorbe, in parte, le vibrazioni del terreno senza crollare.
Le
nostre pajare sono tutte munite di una o più scale esterne a spirale,
ricavate dallo spessore della muraja; questo fa assomigliare l’intera
struttura ad una gigantesca chiocciola.
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Pajara
all'interno di un uliveto
(Foto
Marco Meuli) |
L’importanza della presenza
delle scale è da addebitarsi alla possibilità di seccare fichi, peperoni
ed altri alimenti al sole, alla necessità di effettuare dei lavori di
manutenzioni sul tetto, ma, principalmente, la scala sembrerebbe essere un
elemento necessario durante la costruzione del riparo, in quanto man mano
che la struttura si ergeva verticalmente, il costruttore poteva salire il
materiale usando i gradini della stessa scala (la cui costruzione, quindi,
procedeva parallelamente a quella della pajara).
Caratteristica
delle porte d’ingresso
Particolarmente
interessante, riguardo la tecnica costruttiva del trullo, sono le varie
soluzioni delle strutture e dei profili delle porte d’ingresso
che, in genere, erano costruite basse.
A
tal proposito vi sono varie interpretazioni: per una migliore difesa dal
freddo e dagli agenti atmosferici; per credenze pagane o religiose (
evitare alle “malumbre”, spiriti malefici, di entrare nel riparo; o,
molto più probabilmente, per non alterare (nel caso la porta d’ingresso
fosse più alta) la staticità dell’intera costruzione.
Le
varie soluzioni dei profili di tali porte, succedutesi nel tempo, ci
forniscono un utile elemento per seguire l’evoluzione delle
costruzioni in pietra a secco: dalla forma primitiva, con due
elementi verticali ed un architrave (poggiante orizzontalmente su di
esse), si passa all’architrave spezzata in due blocchi monolitici
che anticipano il sistema del triangolo di scarico delle soluzioni
più evolute.
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Paiara
a base quadrata e porta ad arco
(Foto
N. Febbraro) |
Nei profili più elaborati (e più recenti), si trova
generalmente la porta ad arco (a tutto sesto, a sesto ribassato o
acuto) sotteso da architrave.
La
porta poi, era costruita in legno d’ulivo, le cui assi venivano fissate
mediante chiodi di legno. Mentre si innalzava la costruzione, da un lato
venivano collocate due pietre (poste una sull’altra): quella superiore
bucata verticalmente ed una inferiore scavata a mò di calotta sferica (a
forma “de cùlu de murtàru”), in cui veniva infilato lo stante di
legno (“stànturu”), a cui veniva fissata la porta (quando chiusa),
mediante una serratura a chiavistello, anch’essa in legno (“mascatùra”).
Paiara
a base quadrata e porta ad arco
(Foto Mattia Buccella)
Origine delle costruzioni
trulliformi
L’origine
di queste costruzioni è certamente antichissima, probabilmente
megalitica, dato che restano a testimonianza di queste ipotesi le
spècchie che, secondo il De Giorgi, hanno relazione di somiglianza
nella struttura e nella forma e che furono, in origine, delle
costruzioni analoghe ai trulli, elevate dall’uomo sia per
abitazione che per difesa.
Pertanto
bisognerebbe riferirsi alla preistoria pugliese e più precisamente
entro un periodo di tempo che va dal 2000 a.C. alla fine dell’età
del Bronzo (VIII sec. a.C.) anche se in verità, da noi, la capanna
neolitica e le dimore dell’età del Bronzo e del Ferro, nulla
hanno a che vedere con le costruzioni a Tholos.
Gli scavi archeologici, sino ad oggi infatti, hanno
soltanto restituito tracce di capanne in materiale vegetale
impostate su un basamento di pietrame informe oppure resti di
abitazioni a pianta quadrangolare coperte con tegole di argilla.Secondo
altri studiosi il sistema costruttivo del “truddhu” è stato
introdotto in Puglia dall’esterno; tale opinione sarebbe
avvalorata dalla presenza di costruzioni analoghe in numerose zone
del Mediterraneo.
C’è chi vede come centri originari la
Mesopotamia, l’Egitto, l’isola di
Creta, chi le coste dell’Africa settentrionale o i
territori dell’Illiria ma in realtà, per quanto concerne l’Illiria,
come è stato dimostrato, si è verificato il fenomeno inverso e
cioè l’influenza della Puglia su tali terre (e non solo per
quanto riguarda il trullo). |
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Riguardo
all’uso di tali costruzioni, il De Fabrizio afferma che queste, in
passato come ai giorni nostri, sono servite come abitazioni e che,
in determinate epoche, siano servite come postazioni di guardia
dalle quali osservare il nemico.
Inoltre il De Fabrizio non esclude
che i “truddhi” abbiano un’origine più recente (rispetto alle
altre ipotesi formulate), origine che potrebbe essere ricercata
nelle numerose immigrazioni di epoca bizantina e nelle correlate
attività agricole che in quell’epoca, proprio ad opera delle
comunità monastiche, determinarono una profonda trasformazione
dell’habitat rurale.
Per
concludere circa l’irrisolto dilemma, una teoria che sembrerebbe
attendibile è quella del Simoncini che vede tra le cause
dell’architettura del trullo: l’importanza del dato geologico locale e
l’organizzazione economica della società. Ciò vuol dire che la
costruzione a trullo poteva poteva sorgere sempre e dovunque si
realizzassero, come avvenne dalle nostre parti, quelle particolari ed
adeguate condizioni economiche ed ambientali.
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Pescoluse. Paiara
con forno
(Foto
N. Febbraro) |
Le
Liàme
Con
il termine liàma, indichiamo un riparo di campagna, con pianta
quadrangolare o rettangolare e volta a botte. I muri perimetrali di tali
costruzioni sono anch’essi, come nel caso dei ripari trulliformi, in
pietra a secco, mentre la volta a botte è costruita grazie all’utilizzo
di blocchi di pietra tufacea (“pièzzi de càrparu”).
Queste
costruzioni permettevano una terrazza più spaziosa di quella del trullo,
per i diversi usi, come essiccare le “fiche”, per cui il termine liàma
deriva dalla loro ampia terrazza (in effetti nel dialetto salentino “liàma”
= terrazza).
La scaletta che porta alla terrazza della liàma è ricavata
esternamente su uno dei due lati più lunghi.
Sono costruzioni molto
frequenti nel nostro territorio, sia nelle campagne sia nelle marine di
Pescoluse e Torre
Pali, dove sono state riadattate ad abitazioni per le vacanze.
Prima
che per la copertura di tali costruzioni si usasse la volta a botte, per
tale scopo erano utilizzate tegole in terracotta (“ìmbrici”), quasi
sempre a due spioventi.
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Cisterna
e Liama
(Foto
N. Febbraro) |
La vita
nelle pajare e nelle liàme
All’interno
del “truddhu”, era in uso dormire su sacchi pieni di paglia o di
foglie di granturco (“pùpuli”), alcune abitazioni erano munite
di un letto in pietre (“lattèra”), o di assi in legno con sopra
la pianta secca delle leguminose (“pasaddhàre”), o lo stelo
dell’orzo battuto (“lu cacchiàme”) o ancora indumenti consunti;
solo raramente si usavano lenzuola di canapa (“de falàtu rùssu”),
ed alcuni contadini si coricavano vestiti.
Quasi
sempre, accanto alle pajare possiamo trovare stalle (“’ncurtatùri”),
ossia recinti di muri a secco, dentro i quali venivano tenuti gli
animali. In alcuni casi, la mangiatoia è interna al riparo; è
infatti nota la costumanza del nostro contadino di avere come
compagni di camera, l’asino ed il maiale.
Oltre “allu
ncurtatùru”, in prossimità dei “truddhi”, ci sono
spesso degli ovili molto bassi, dell’altezza di circa un metro ed
a forma circolare, in cui venivano tenute pecore e capre ed, in
alcuni casi, galline. |
Ncurtaturu
(Foto: N.
Febbraro)
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In
estate, la famiglia del contadino si trasferiva in campagna per
raccogliere, tagliare, essiccare e cuocere i fichi (“fare le fìche”).
Al trasloco concorreva tutta la famiglia, anche se le masserizie da
trasferire erano poche: i cavalletti in legno per il letto (“nù pàru
de tristèddhi”), tre tavole per lo stesso, un tavolo (“la bànca”),
un treppiedi per cucinare, un tegame in rame stagnato (“la farsùra”)
e pochi piatti di terraglia. La famiglia si snodava lungo la via
campestre, in fila indiana, ed ognumo portava qualcosa.
All’interno
del riparo c’erano dei recipienti per l’acqua (“lu ‘mmìle,
lu tràfulu o la capàsa”), mentre l’illuminazione era ottenuta
mediante delle lucerne ad olio.
Esternamente,
accanto alla porta, erano sistemati dei sedili in pietra (“ssettatùri”);
spesso venivano scavati degli abbeveratoi
per gli animali (“pìle”).
Di
fondamentale importanza erano i pozzi, le cisterne e le “pozzèlle”,
con le quali i contadini riuscirono a sopperire al grave problema
della mancanza d’acqua in superficie, in questo nostro assolato ed
arso Salento.
Le
tradizionali colture che, fin dai tempi remoti, furono praticate
nella nostra terra, resero necessario la costruzione, nei pressi
delle pajare, di “spàse” e “littère”, costruite con pietre
a secco su roccia affiorante e di forma circolare. Su queste
costruzioni si preparava un tappeto, grazie all’utilizzo dell’Hypericum
Crispum (“lu fùmulu”), su cui si appoggiavano i frutti da
essiccare.
I
forni di campagna (“furnu” o “furnieddhu”), infine, servivano per
la cottura di pane e “friseddhe” e per la torrefazione dei fichi.
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Settaturu
(Foto: Nicola Febbraro)
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Rapporti interpersonali
al tempo delle pajare
A
quei tempi, ed in quegli ambienti, i rapporti fra le persone erano
solidali e più intensi. Non esisteva la psicosi della paura o del furto,
era molto sviluppata la collaborazione e l’aiuto reciproco, al bisogno
veniva utilizzata la cisterna o il forno del vicino, ed in comune si
effettuava il lavoro, lo svago ed il divertimento. I rapporti erano a
misura d’uomo, basati sulla reciproca fiducia, rispetto e lealtà; le
prospettive, le speranze, i sacrifici e gli stenti erano condivisi e
convissuti.
Era
un mondo (quello dei nostri contadini e delle loro famiglie), chiuso alle
novità più appariscenti, ai repentini cambiamenti, e se qualcosa al di
fuori della loro esperienza accadeva, li interessava solo quell’attimo
in cui, riuniti tutti insieme, al fresco del “truddhu”, smaltivano la
fatica quotidiana di una giornata vissuta intensamente.
Capase
e Pajare
(Foto: N.
Febbraro)
I
giovani, apprendevano dalla viva voce degli anziani, l’esperienza
vissuta ed i vari metodi per utilizzare al massimo ogni piccola porzione
di terreno; infatti essendo le nostre rocce tufacee, l’anziano, ad
esempio, insegnava come piantare una vite in un ristrettissimo spazio di
terreno tra roccia e roccia e nella roccia stessa. Molte pajare, fra
l’altro, presentano una pergola che ombreggia la porta d’entrata,
mentre numerosi e svariati sono gli alberi da frutto: peschi, mandorli,
peri, melecotogne, melograni, carrubi, e, ovunque e sempre, fichi ed
olivi, simboli del pasto e del condimento.
Ed
anche le previsioni del tempo
erano ricavate dall’esperienza diretta; i contadini fondavano le loro
osservazioni sulla posizione della luna, sul tramonto del sole e sul
comportamento degli animali.
La
presente relazione è tratta da una ricerca condotta da Nicola Febbraro.
Bibliografia:
Costantini
A. - Guida ai monumenti dell'architettura contadina del Salento.
Moschettini C. - I trulli - Primo congresso di etnografia italiana,
Troccoli Verardi M. L. - I misteriosi simboli dei trulli.
De Marco M. - L'agricoltura e l'architettura rurale nella provincia di Lecce.
Battaglia R. - Osservazioni sulla distribuzione e sulla forma dei trulli pugliesi.
Ponzi L. - Monumenti della civiltà contadina del Capo di Leuca.
Circolo Sportivo Enal Tricasina - Ricerca socio-economica sulle "Pajare".
Annu Novu, Salve Vecchiu - Edizione 1993
Artigianato
locale - Le
Pajare in miniatura di Nicola Febbraro
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Pajara
Trauscello |
Miniatura
Trauscello |
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